No no, calma, qui non c’entrano nulla gli 883 (anzi, “l’883”, alla fine Pezzali era solo)…e grazie al cielo!
Qui si parla proprio di mito nel vero senso del termine, e non solo perché la storia comincia nella mia adolescenza (lost in the mists of time, ammettiamolo): tutto ebbe inizio nell’estate che precedette il mio ingresso alle superiori, quando trovai un libretto appartenuto a mia madre ragazzina (costava 700 lire, un prezzo al quale non si trova neanche un caffè al distributore automatico oggigiorno), intitolato “Dei ed eroi”, di Eugenio Treves. Fu un colpo di fulmine: lo lessi avidamente, avvinta dalla narrazione piena di colpi di scena e dallo stile un po’ antiquato in cui era stata scritta. Termini dal sapore dannunziano come “chioccolare”, l’autore alternava immagini auliche ed eleganti a momenti ridicoli, a tratti si respirava un lirismo quasi ottocentesco. E intanto sotto i miei occhi si dipanavano le storie che avevano dato vita al pantheon greco, dalla cosmogonia alle vicende di Ulisse e soci: fu lì che mi appassionai a quel mondo immaginario, gustandomi le trovate degli Argonauti o il trasformismo di quel mandrillone di Zeus, le furbate di Ermes bambino, la storia triste dei Dioscuri, il ratto di Proserpina, il terrore di Dafne, le atrocità degli Atridi, il tranello teso a Diana dal suo stesso fratello.
Poco tempo dopo quella casuale full immersion nella mitologia, entrai in quarto ginnasio: in tante versioni di greco, ricorreva una formula che mi è rimasta impressa e che in certe occasioni ritiro fuori, tra me e me: “Ὁ μῦθος δηλοῖ”, “il mito dimostra (che…)”, “la storia insegna (che…)”. Introduceva la morale della favola, l’insegnamento universale che andava tratto da quel brano. E anche il mito era un racconto, a cavallo tra la leggenda, la parabola e la pura narrativa.
Accanto al variegato mondo di dei e semidei, anche i fumetti mi offrivano degli spunti convergenti: il principe Namor fu il trampolino che mi fece tuffare nel regno di Atlantide.
La Marvel infatti, già negli anni ’70, aveva trovato nel Submariner un avversario-alleato dal tragico passato per I Fantastici Quattro, oltre a creare altre storie episodiche che raccontavano di lotte e regni sottomarini.
Namor era ferocemente contrario alla razza umana, che riteneva inferiore alla sua (con la singola eccezione di Sue Storm, confermando così il detto atlantideo che recita “tira più una bionda cotonata che un banco di tonni”) nonché responsabile dell’annientamento del suo popolo.
Ma non era solo la Marvel a pensare al mito di Atlantide in quegli anni: Donovan, il menestrello scozzese, raccontò a modo suo la storia di questo continente scomparso in una celebre canzone, che forse qualcuno di voi avrà avuto modo di ascoltare per la prima volta nell’episodio di Futurama in cui Fry si fidanza con una sirena, abitante della perduta città di Atlanta (ep. The Deep South). Secondo la ballata di Donovan, Atlantide era un’immensa isola, una terra emersa situata tra le coste dell’America e quelle dell’Africa, da cui “beautiful sailors” veleggiavano verso lidi lontani “in their ships of painted sails”, e sarebbe stato l’oceano omonimo a prenderne il posto in seguito al diluvio universale. Ma, consapevole del terribile evento che l’avrebbe sommersa, Atlantide ebbe modo di inviare delle navi, a bordo delle quali c’erano quelli che Donovan chiama “i Dodici”: ognuna di queste dodici figure reca con sé un tesoro di sapienza che andrebbe altrimenti perduta assieme alla civiltà da cui proviene, ed ognuna di esse presiede a una diversa branca del sapere umano, proprio come gli dei del mondo ellenico, poesia, medicina, agricoltura, scienza, magia…Donovan spiega che è proprio da esse che la “nostra” umanità ha appreso a vivere, poiché furono loro, confusi dagli uomini con delle divinità, a fornirci le conoscenze necessarie a coltivare, curare, creare, comporre. Ad essere uomini a nostra volta.
Rimasero al fianco dell’umanità, in qualità di anziani della loro epoca, scegliendo di dimenticare il proprio passato e di lasciare che l’umanità scampata al diluvio gioisse nell’innocenza di una nuova opportunità.
Anche un cantautore italiano si è cimentato con la storia del “continente sommerso”; personalmente ritengo che la versione più bella che Battiato ne dà sia la Atlantide proposta nel suo live Last Summer Dance. La sua Atlantide è figlia della mitologia greca: prende le mosse da una disputa tra fratelli, e che fratelli!
“E gli dei tirarono a sorte, si divisero il mondo: Zeus la terra, Ade gli inferi, Poseidon il continente sommerso.”
Zeus aveva fatto la parte del leone (tipico di Zeus!), e d’altra parte era stato lui a liberare i fratelli, un po’ se l’era guadagnato il diritto alla parte migliore; ad Ade (che non era mai stato un tipo di compagnia) era toccata l’eredità meno allegra, ma Poseidon era fatto di tutt’altra pasta: collerico e orgoglioso, non si sarebbe certo accontentato di un regno abitato da dannati e anime tremule. Ci si era messo d’impegno (e d’altro canto non era mica Zeus, che un giorno sì e quell’altro pure dava la caccia a qualunque essere di sesso femminile – e non solo – si aggirasse nel cosmo!), era riuscito a far emergere la sua terra dall’abisso e l’aveva poi ricolmata di benessere e prosperità. Il primo sovrano, Atlante, dotato di conoscenze esoteriche e astronomiche, aveva governato questo paese con giustizia e rettitudine, preservandolo dalla corruzione e dalle umane debolezze, aumentandone lo splendore e la magnificenza, e dopo di lui altri re si erano succeduti sul trono mantenendo inalterate l’equità e l’incorruttibilità del proprio incarico.
Eppure anche questo paradiso incontaminato riceve la visita di un serpente velenoso, che conduce alla rovina gli abitanti e con essi l’intera civiltà di Atlantide. Stavolta a corrompere l’eden e annientare l’equilibrio su cui l’isola poggia è proprio “il carattere umano”, il contatto con l’umanità in quanto condizione dello spirito: gli atlantidei nella loro purezza incorruttibile e nella loro inviolabile indifferenza non possiedono forza sufficiente a respingere il virus umano, non sanno proteggersi dal contagio, non riescono a tollerare “neppure la felicità…neppure la felicità”.
Un momento solo strumentale racconta la confusione e lo sgomento di quegli attimi, possiamo intuire l’andirivieni angosciato di chi vede sgretolarsi il proprio mondo e non sa dove trovare riparo, il giorno e la notte in cui “la distruzione avvenne” come negli ultimi istanti di Pompei; poi improvvisamente le dinamiche si placano, cala il silenzio, mentre l’isola ormai disabitata viene consegnata al proprio destino: tra le note delicate del pianoforte, Atlantide scivola placidamente sotto il pelo dell’acqua e si inabissa, relegata per sempre all’oscurità e all’oblio. “Ὁ μῦθος δηλοῖ”.
Lunga vita e prosperità, terrestri! ;-)